Il delicato equilibrio della trasformazione: la donna in gravidanza e nel post-parto.

Pregnant woman showing her belly and holding a paper heart. Isolated on white

 

La gravidanza e la maternità costituiscono un periodo di grandi cambiamenti per la donna e per la coppia e molteplici risultano le emozioni ed i vissuti psicologici associati alla nascita di un bambino.

La gravidanza è stata definita come un evento psicosomatico che genera modificazioni sia fisiologiche che psicologiche. Diventare genitore rappresenta, all’interno del ciclo di vita, un evento che segna lo sviluppo della personalità adulta della donna e della coppia nel suo insieme; per questo si può tranquillamente parlare di genitorialità in termini di crisi evolutiva alla pari di quelle più conclamate tipiche dell’infanzia e  nell’adolescenza. L’intensità delle modificazioni emotive varia in balle alla diversa reattività individuale. Questo significa che non tutte le donne vivono questo periodo della vita allo stesso modo.

E’ risaputo ormai che una gravidanza vissuta bene incide in maniera positiva sul neonato, che dorme di più, mangia meglio, è più calmo, ha minori problemi intestinali (coliche gassose), contrae minori infezioni e malattie. Per una donna cercare di avere le idee chiare in un momento così importante della vita personale è quindi indispensabile. E’ importante quindi soffermare la nostra attenzione su di un sentimento molto comune in gravidanza come quello dell’ansia.

 

L’ansia è un sentimento di preoccupazione che normalmente investe la vita di tutti i giorni, ma nel corso della gravidanza diventa più costante e mirato a specifiche problematiche.

 

Come vivere al meglio questo periodo

  • L’ansia che riguarda se stessa ed il proprio vissuto corporeo.

La donna cambia forma, peso e con ciò il rapporto con il proprio corpo e con l’ambiente circostante. La pancia è l’elemento distintivo del proprio essere gravide e per questo su di essa si infrangono orgoglio e paure: potrò continuare a piacere? Tornerò come prima? Sono alcune delle preoccupazioni più comuni e anche più sane, facilmente superabili confrontandosi con chi ci è già passato.

  • L’ansia per il figlio che dovrà nascere.

Molto spesso prendono forma dei timori che il bambino possa non essere normale: tali idee sono a volte ossessive e le cause possono ricercarsi nel senso di colpa, tendenze masochistiche, traumi infantili. Sono preoccupazioni del tutto normali fintanto che rimangono vincolate all’accertamento di normalità del feto: una verifica di routine tramite ecografia solitamente basta a togliere questi pensieri.

  • L’ansia legata al rapporto con il proprio compagno.

All’arrivo del nuovo nato, ma anche nell’attesa, la coppia è chiamata a riorganizzare i tempi e gli spazi fisici della propria vita; il passaggio dalla vita di coppia a triade è complesso e spesso a farne le spese è la vita sessuale. Un po’ tutte le donne vivono la sessualità in opposizione alla maternità, in questo momento diminuiscono soddisfacimento e frequenza dei rapporti sessuali in maniera sempre maggiore, mentre diminuisce in modo più lieve il desiderio generando così un senso di insoddisfazione che se non affrontato può protrarsi anche a parto avvenuto.

 

Diversi stili materni

Diverse ricerche hanno dimostrato che le donne durante la gravidanza sviluppano uno stile materno che influenza le aspettative, fantasie e rappresentazioni della donna gravida e la relazione tra madre e bambino. Vi sono 3 stili materni: la madre facilitante, la madre regolatrice e lo stile della reciprocità.

La madre facilitante vive la maternità come un’esperienza positiva che le consente di rivivere l’unione vissuta con la madre durante l’infanzia. La donna si costruisce la propria identità di madre, accetta la gravidanza e si prepara adeguatamente al parto; dopo la nascita del bambino tende a ricercarne la vicinanza ed a rimandare la ripresa lavorativa. A volte però può idealizzare eccessivamente il bambino, negando qualsiasi forma di imperfezione, non coglie difetti o problematiche nella gravidanza, la vive come un’esperienza meravigliosa e a volte rischia di sacrificare se stessa e la sua realizzazione personale per il bambino.

La madre regolatrice invece non tollera le trasformazioni corporee, considera il feto come un intruso, la gravidanza le riattiva conflitti infantili ed il parto è concepito come un’esperienza negativa. Tenderà a tornare molto velocemente alle attività quotidiane, tenderà a delegare l’accudimento del bambino a figure sostitutive significative.

Vi è poi lo stile della reciprocità, che presenta una via di mezzo tra i due stili precedenti. In questo caso la donna è felice di aspettare un bambino, presenta anche rimpianti rispetto ai cambiamenti inevitabili che subiranno la sua vita professionale personale e di coppia.

 

Come vivere al meglio questo periodo

  • Prenditi cura del tuo corpo che cambia, dedica del tempo a prendere confidenza con i cambiamenti del tuo corpo.
  • Identifica intorno a te persone in grado di offrirti supporto e condivisione.
  • Condividi i tuoi pensieri relativi a timori o dubbi, il confronto con chi ha già attraversato questa esperienza è molto utile.
  • Cerca di avere un rapporto con il tuo partner di tipo supportivo, fatti coccolare se a volte ti senti un po’ giù.
  • Inizia ad immaginare che tipo di aiuto vorrai dopo il parto e informa le persone più vicine su come vuoi che ti siano di supporto.
  • Ricordati che la gravidanza non è una malattia e quindi, salvo prescrizioni contrarie, porta avanti le tue attività e le tue abitudini senza troppe modifiche.
  • Ripeti a te stessa che la tua serenità ora sarà la sua in futuro.

Gestiamo il nostro tempo

a cura della dott.ssa Lucia Di Nardo

Il tempo che sfugge

La gestione ottimale del tempo è uno degli argomenti di discussione più ricorrenti (sia in relazione alle attività professionali, sia riguardo il vivere quotidiano) e più affascinanti dato che, mai come adesso, il tempo appare come una delle risorse più scarse nel mondo, la “materia prima” su cui stiamo combattendo le battaglie più dure.
Tutti o quasi, infatti, sembriamo frustrati perché non abbiamo abbastanza tempo a nostra disposizione ma la questione, in realtà, è un falso problema. Essendo, infatti, il tempo una risorsa finita, occorre semplicemente imparare a farne un uso migliore. Il tempo è la risorsa più democratica che esista, dal momento che tutti gli uomini hanno la stessa quantità di ore a disposizione durante la giornata. Eppure, l’esperienza ci insegna che ci sono alcune persone che ne hanno sempre troppo poco, e altre (ma sono la minoranza) che ne hanno a sufficienza per portare a termine tutti i progetti messi in cantiere.
Il segreto sta nell’utilizzare al meglio le ore a nostra disposizione per non andare incontro a due spiacevolissime sensazioni:

  • sentirsi in colpa per non avere fatto ciò che avremmo dovuto/voluto fare
  • avvertire di aver perso il controllo della nostra vita perché non siano riusciti a gestirci

L’atteggiamento mentale di chi va sempre di corsa consiste in un’ incapacità di vivere il presente poiché l’attenzione è sempre rivolta al futuro e la mente è proiettata su quello che c’è ancora da fare. Essere impazienti quando si è in fila, completare le frasi degli altri e intervenire quando qualcuno è più lento di noi nel portare a termine un compito è tipico delle persone che nella vita vanno sempre di corsa. In uno stile di vita così frenetico una delle principali fonti di stress è la “mancanza di tempo”. Questo atteggiamento ci impedisce di godere delle cose e spesso causa problemi di stress e di salute ed è per questo che rallentare e gestire meglio il proprio tempo contribuisce significativamente a migliorare la nostra qualità di vita. Una corretta e attenta pianificazione del nostro tempo ci permetterebbe di vivere al meglio le nostre giornate.

Cosa ci impedisce di gestire in maniera efficace il nostro tempo?

  • Non programmare gli impegni. Lo stress deriva soprattutto dal pensare costantemente a tutte le cose da fare, impegnando tutte le risorse disponibili. Gli impegni di lavoro sono vissuti come carichi faticosi e con un forte senso di ansietà dovuto alla paura di non riuscire a fare tutto. Con una buona programmazione si risparmia tempo e si migliora la qualità dei risultati
  • Pensare che è tutto assolutamente importante. Non avere una visione di insieme spesso può impedirci di capire cosa è realmente prioritario e iniziamo a fare le cose in modo confusivo e poco efficace. Può essere utile utilizzare la tecnica dell’ “Helicoter View”, ossia considerare il complesso delle attività che dobbiamo svolgere come se le guardassimo dall alto e visualizzare cosi le priorita dalle quali partire per andare nella giusta direzione senza perdere tempo.
  • Ho troppo da fare non ho tempo per pensare”. Eseguire tutte le attività in modo automatico ci nega la possibilità di trovare alternative diverse alla soluzione di un problema.
  • C’è tempo”. Spesso non consideriamo attentamente il tempo che richiede una determinata attività e ci ritroviamo a svolgerlo all’ultimo minuto o a non riuscire a rispettare le scadenze. La mancata valutazione del tempo nella pianificiazione comporta un elevata dose di stress!
  • Domani è un altro giorno”. Spesso quando non ci va di fare qualcosa tendiamo a rinviarla a un ipotetico domani. È meglio affrontare subito ciò che non ci va di fare per non ritrovarsi alla fine della settimana ad avere accumulato tutti impegni sgraditi che creerebbero tanta frustrazione.
  • Io vengo dopo”. Non programmare correttamente il tempo rischia di mettere il nostro ben essere e la nostra vita privata in secondo piano. È buono, quindi, inserire in agenda l’appuntamento con se stessi!

Per riuscire a programmare al meglio il nostro tempo, un utile strumento è l’utilizzo dell’agenda. L’agenda funziona da mappa personale che ci consente di: avere una visione d’insieme di tutti i compiti da svolgere, programmare in maniera sistematica le attività e le scadenze importanti, organizzare e controllare l’esecuzione di quanto progettato. L’agenda va strutturata distribuendo il tempo tra compiti impegantivi (lavoro) 55%, impegni 25%leggeri (amici, sport), tempo libero ed imprevisti 10%.

È importante riservare uno spazio agli imprevisti che sono una delle poche certezze della giornata lavorativa; questo consente di poterli affrontare in modo proattivo invece di subirli passivamente. E’ importante affrontare solo gli imprevisti che non possano essere ignorati, delegati o posticipati.

Infine, è fondamentale l’appuntamento con se stessi e programmare lo spazio per il tempo libero. Il tempo per noi è la nostra ricarica e la nostra energia, il riposo notturno non è sufficiente. Come una macchina si ferma senza la benzina, anche noi rischiamo di andare in panne se non abbiamo la nostra fonte di ricarica.

 

ATTENZIONE ai “Rubatempo”

A volte non basta solo riuscire a programmare il nostro tempo, è importante anche rispettare ciò che è stato programmato e con i tempi stabiliti. Vi sono, però, dei ladri del tempo, ossia avvenimenti, situazioni e attività che danno la sensazione di aver sprecato il tempo. È importante riconoscerli per evitare che entrino in azione!

  • Attenzione alla “porta sempre aperta”: fare attenzione al tempo che ci richiedono gli altri. Può succedere di lasciare la “porta aperta” a chi potrebbe interromperci e intralciare il nostro lavoro. È opportuno, con intelligenza e cortesia, difendere il nostro tempo: farsi vedere occupati scoraggia le persone; nel caso di una visita inattesa la tecnica del “rimanere in piedi” renderà l’incontro sicuramente più breve.
  • Il telefono: il telefono ci rende continuamente accessibili e quindi potremmo essere disturbati in continuazione. Può essere utile nel tempo che abbiamo programmato per svolgere una data attività di inserire la segreteria telefonica di modo da poter richiamare e dedicare del tempo alle attività sociali in un altro momento.
  • L’incapacità di dire di no: quando avvertiamo che il nostro tempo ci viene sottratto da richieste inopportune abbiamo la possibilità di dire di no. Ciò può essere difficile per paura di offendere qualcuno, creare un conflitto o non venire accettati. Allo stesso tempo dire di no è fondamentale per difendere il proprio confine, aiuta ad aumentare la propria autostima, migliora la qualità e l’efficienza del tempo e aiuta a diminuire lo stress.

Le 7 leggi del tempo (Gamirasio 2007).

  • Legge di Paretoil 20% delle attività che svolgiamo produce l’80% dei nostri risultati. È importante focalizzare le priorità e focalizzarsi sulle attività utili al raggiungimento dell’obiettivo. Delegare per non disperdere energie e forze.
  • Legge di Parkinsonil lavoro dura sempre quel tanto che è necessario a colmare il tempo disponibile per farlo.  Importanza della pianificazione e rispetto dei tempi stabiliti
  • Legge di Fraisseil tempo è un’esperienza soggettiva; la durata di un’attività piacevole viene percepita come breve; quelle spiacevoli sembrano non passare mai. Durante la giornata alternare le attività piacevoli con quelle pesanti. Svolgere le attività leggere nei momenti di maggiore stanchezza.
  • Legge di Illichquando si supera una certa soglia di lavoro, l’efficacia diminuisce. Durante la giornata, stabilire delle pause come momento di ricarica, oltre a quella del pranzo. È bene concedersi 5 minuti di pausa ogni due ore di lavoro.
  • Legge di Murphy: lo svolgimento di un lavoro dura più tempo di quanto era stato previsto. Pianificare solo il 60-70% della giornata per poter gestire anche gli imprevisti.
  • Legge dell’accumulo di Douglasquello che si accumula tende ad occupare tutto lo spazio disponibile che abbiamo per contenerlo.                                                           Mettere in ordine a fine giornata gli strumenti e l’ambiente di lavoro. Non accumulare attività spiacevoli.
  • Legge di Carlsonsvolgere un’ attività in modo continuativo richiede meno tempo che suddividerla in più momenti. Scegliere sequenze di lavoro omogenee e proteggersi dalle richieste dell’esterno.

 

“Non dire che non hai abbastanza tempo.
Hai esattamente lo stesso numero di ore al giorno che hanno avuto Pasteur, Michelangelo, Madre Teresa, Leonardo da Vinci, Thomas Jefferson e Albert Einstein”.
H. Jackson Brown

Burnout: Quanto brucia un fuoco spento

a cura della Dott.ssa Lucia Di Nardo

Il termine BURNOUT mette in evidenza alcuni tratti salienti della sindrome: burnout infatti rimanda a ciò che è bruciato, logorato, fuso, scoppiato.

Non è un caso che una delle metafore a cui spesso fanno riferimento gli stessi lavoratori colpiti dalla sindrome sia quella di un fuoco che, un tempo acceso e bruciante di energia, si è ora spento, lasciando il posto a delle fredde ceneri.

Il burnout è dunque un fenomeno caratterizzato dal completo esaurimento emotivo e psicofisico del lavoratore, accompagnato dal distacco, o da una vera e propria avversione verso il lavoro, i colleghi, i superiori, i clienti o gli utenti, ecc.

Quali sono i segnali che permettono di riconoscere il burnout?

Parlando di burnout, alcuni anni fa si faceva riferimento esclusivamente ad alcune categorie di lavoratori: i medici, gli infermieri, gli insegnanti e, più in generale, gli operatori sociali. Infatti la forma più classica della sindrome si manifesta nelle professioni cosiddette “di aiuto”, quelle che si svolgono all’interno dei contesti sociosanitari e scolastici, in cui l’obiettivo dell’attività lavorativa è la cura, l’aiuto, l’educazione o la riabilitazione.

La studiosa che più si è occupata di burnout è Christina Maslach; a lei dobbiamo la sistematizzazione teorica più nota della sintomatologia del fenomeno.

Questo si caratterizza per tre segni distintivi, contemporaneamente presenti:

  1. Esaurimento emotivo: la persona avverte di aver “bruciato” tutte le sue energie; si sente stanca, svuotata, senza più risorse fisiche ed emozionali per affrontare l’attività lavorativa.

  2. Depersonalizzazione: la persona manifesta un atteggiamento freddo e cinico nelle relazioni con gli altri, che sono sempre più caratterizzate da indifferenza e annullamento delle emozioni. Al concetto di depersonalizzazione si è venuto progressivamente a sostituire quello di disaffezione. La differenza è notevole: mentre con il concetto di depersonalizzazione si poneva l’accento su una risposta disfunzionale agli utenti, con il concetto di disaffezione si pone l’accento su una risposta disfunzionale al lavoro in sé e per sé.

  3. Riduzione dell’efficacia professionale: la persona avverte un crescente senso di inadeguatezza, una diminuzione, o perdita, della propria competenza professionale ed una mancanza di fiducia nelle proprie possibilità.

Vi possono essere numerosi altri sintomi, come umore depresso, ansia, instabilità emotiva, senso di colpa, bassa tolleranza alle frustrazioni, disturbi psicosomatici ed anche aumento dei comportamenti rischiosi.

Secondo i primi studi i soggetti più esposti al burnout sarebbero quelli più empatici, idealisti e tendenti ad identificarsi con gli altri, ma anche quelli più introversi, ansiosi, ossessivi e altamente entusiasti. Spesso sono proprio questi tratti di personalità ad orientare la scelta di intraprendere una professione di aiuto, con una passione ed un entusiasmo inizialmente notevoli, che poi però non trovano sufficiente riscontro nella realtà lavorativa.

Non tutte le persone sono ugualmente esposte al burnout; può capitare che su due colleghi che lavorano nello stesso reparto per uno stesso periodo di tempo affrontando quotidianamente le medesime difficoltà lavorative, uno sia colpito da burnout e l’altro no.

In casi del genere spesso è l’efficacia personale, ossia la convinzione della persona di riuscire a gestire con successo le situazioni, anche quelle complesse, a rappresentare il fattore determinante. Il lavoratore con un’elevata efficacia personale vedrà le difficoltà lavorative come delle sfide davanti alle quali insistere e aumentare l’impegno ed i fallimenti come occasioni di apprendimento e stimoli a migliorare. Il lavoratore con bassa efficacia personale sarà invece portato a vedere le difficoltà come ostacoli insormontabili e tenderà ad arrendersi, a vedersi già sconfitto in partenza, ed anche davanti alle situazioni incerte sarà portato a mettere meno impegno e ad avere sempre meno fiducia in sé.

In breve: un basso livello di efficacia personale è un fattore predisponente alla manifestazione della sindrome del burnout, laddove un alto livello costituisce un fattore particolarmente protettivo.

Le conseguenze del burnout non sono solo individuali (depressione, disturbi psicosomatici, abuso di sostanze, insoddisfazione, ecc.), ma anche organizzative: assenteismo, calo delle performance e della qualità del servizio, abbandono. Appare dunque importante e quanto mai attuale che le organizzazioni si preoccupino di tutelare le proprie risorse umane, sostenendole nel fronteggiare lo stress, che può ripercuotersi nella qualità della vita personale, ma anche nella prestazione lavorativa, nel rapporto con i colleghi, i clienti e gli utenti. Diventa allora fondamentale pianificare e realizzare strategie di prevenzione del disagio lavorativo, intervenendo su ciò che può essere fonte di benessere e di coinvolgimento.

C’è stress e stress…

A cura della Dott.ssa Lucia Di Nardo

Lo STRESS è una reazione emozionale intensa ad una serie di stimoli esterni che mettono in moto risposte fisiologiche e psicologiche di natura adattiva.

Se gli sforzi del soggetto falliscono perché lo stress supera la capacità di risposta, l’individuo è sottoposto ad una vulnerabilità nei confronti della malattia psichica, di quella somatica o di entrambe.

Noi tutti, in base alle esperienze di vita e alle interpretazioni che facciamo, rispondiamo in modo diverso agli eventi stressanti. Il comportamento messo in atto in condizioni di stress in correlazione con il tipo di stress a cui siamo sottoposti determina e condiziona in maniera positiva o negativa la nostra vita.

A tal proposito distinguiamo uno stress a breve termine caratterizzato da una connotazione positiva per le sue condizioni adattive al modificarsi delle richieste dell’ambiente e per le importanti reazioni di difesa; e uno stress a lungo termine a connotazione negativa e causa di vere e proprie patologie.

Nello specifico distinguiamo un EUSTRESS, detto anche stress buono:

Un individuo eustressato è una persona che sente di essere stimolata, di possedere il controllo sulla situazione ambientale interna e di riuscire adeguatamente alle richieste dell’ambiente esterno” (Favretto, 2005);

e un DISTRESS, detto anche stress cattivo:

Un individuo distressato è una persona che ha perso il controllo sulla maggior parte delle situazioni in cui ha a che fare e che percepisce le richieste provenienti dall’ambiente come superiori alle sue forze ed energie” (Favretto, 2005).

Dunque, se da un lato lo stress può essere causa o concausa di patologie anche gravi (distress) dall’altro può creare le condizioni necessarie per evitarle (eustress).

Dal punto di vista PSICOLOGICO lo stress viene definito come la risposta che dipende dalla VALUTAZIONE COGNITIVA del significato dello stimolo. L’esito finale di tale valutazione è costituito dalle RAPPRESENTAZIONI MENTALI.

Con tale termine ci si riferisce non solo alle immagini mentali, ma anche al DIALOGO INTERNO, cioè quel costrutto mentale che rappresenta i contenuti cognitivi connessi alle credenze e alle convinzioni, maturate dalla storia personale e dalle conoscenze possedute, che si presentano sotto forma di dibattiti tra i pensieri. Se il dialogo interno è positivo, logico e reale si può riuscire a sviluppare una vita più conforme a quella desiderata e funzionale alle reali esigenze. Le persone non ne sono dunque vittime passive, sono importanti i modi in cui valutano cognitivamente e percepiscono emotivamente, insieme ai modi in cui considerano le proprie risorse e le proprie capacità di far fronte allo stress.

COMPORTAMENTI TIPICI IN PRESENZA DI STRESS:

  • Decremento della capacità di concentrazione

  • Sintomi di ansia e aumento dell’arousal

  • Deterioramento della memoria a lungo termine

  • Deterioramento delle capacità di pianificazione

  • Aumento delle tensioni fisiche e psicologiche

  • Diminuzione dell’autostima

  • Aumento della depressione

  • Problemi di verbalizzazione (balbuzie, tartagliamento)

  • Diminuzione degli interessi e dell’entusiasmo

  • Aumento dell’abuso di sostanze

  • Disturbi del sonno

  • Spostamento sugli altri delle responsabilità

  • Minacce di suicidi

3 STRUMENTI PER FRONTEGGIARE LO STRESS

Esistono molti modi per affrontare e prevenire lo stress, in questa sede voglio indicarvene 3 che riteniamo particolarmente efficaci per utilità e semplicità.

 Il primo è la meditazione (o mindfulness), che ha lo scopo di allenare l’attenzione e di aumentare la consapevolezza di sé e dell’ambiente, favorendo un miglior radicamento nel momento presente. È, fondamentalmente, una pratica di prevenzione dello stress, infatti, attraverso l’allenamento dell’attenzione è possibile scegliere dove e come dirigerla, distogliendola da pensieri disturbanti e quindi, piuttosto che reagire automaticamente all’ambiente sulla base di idee preconcette, diventa possibile focalizzarsi sul qui ed ora e radicarsi nella realtà del momento presente, potendo così agire efficacemente oppure riuscire ad accettare il fatto che non ci sia nulla da fare riguardo quello che sta succedendo.

Il secondo comprende alcune tecniche di scarica delle tensioni corporee come il rilassamento progressivo di Jacobson, che possono essere definite “di emergenza”. Infatti, se lo stress si è accumulato nel corpo, vuol dire che non è stato possibile fronteggiare adeguatamente i fattori stressanti o, più semplicemente, il livello di stress era troppo alto. Quindi, per poter praticare efficacemente la meditazione o il rilassamento, sarà necessario rimuovere l’energia in eccesso attraverso movimenti corporei o alternando contrazione e rilascio di diversi distretti muscolari, questo consentirà una scarica della tensione bloccata nel corpo ripristinando un equilibrio psicofisiologico adeguato.

L’ultimo strumento è il rilassamento propriamente detto. Spesso viene confuso con la meditazione e viceversa, tuttavia, come già accennato, la meditazione è un allenamento della capacità attentiva il cui scopo è il raggiungimento di un alto grado di lucidità e di presenza mentale. Il rilassamento, invece, ha come obiettivo l’esatto opposto: infatti attraverso di esso è possibile “allontanarsi” dalla realtà, entrando in una dimensione di benessere e leggerezza che rappresenta un momento di “pausa” e di sana chiusura in se stessi, in cui ricaricare le energie nella vita quotidiana.

La Perfezione se la conosci puoi evitarla!

A cura della dott.ssa Lucia Di Nardo

Il pensiero occidentale è figlio dell’idea di perfezione derivante da due correnti culturali, il pensiero greco e quello critstiano. Nel primo la perfezione è vista come una necessità dell’essere, mentre nel secondo la perfezione divina reclama la perfezione umana. Questo fa si che l’uomo nella sua evoluzione abbia in un certo qual modo stilato una lista di cose da fare per raggiungere la perfezione, e cose da fare per eliminare le imperfezioni. In psicologia, sempre più, nasce l’esigenza di restituire dignità all’imperfezione, al limite come dimensione nella quale l’uomo nasce, vive, cresce, si muove e sperimenta se stesso. L’uomo è per sua natura un essere imperfetto!(Riccardo Peter) Lo stesso Jung, discepolo di Freud e fondatore della psicologia analitica, distingue tra PERFEZIONE appartenente agli dei, e COMPLETEZZA o TOTALITA’ che rappresenta il massimo a cui possono aspirare gli esseri umani e che richiede la capacità di conoscere ed accettare non solo gli aspetti manifesti e positivi della nostra individualità, ma anche quelli che lui definisce aspetti ombra.

Ma cos’è la perfezione che tanto ricerchiamo?

Perfezione sta per mancanza di errori, di difetti, di lacune; completezza; eccellenza. (dizionario DeAgostini della lingua italiana, 2001) Hollader definisce la perfezione come “La consuetudine di richiedere a se stessi o agli altri livelli di performance più elevati di quanto non sia necessario in quella specifica situazione”

Il concetto di perfezionismo in psicologia risale alla fine degli anni Settanta inteso come lo stabilire standard non realistici per se stessi, attenzione selettiva verso il fallimento, pensiero dicotomico (successo o fallimento)
(Hollander,1965; Hamacheck, 1978; Bruns, 1980)

L’uomo è un essere sociale ed il perfezionismo va inteso come una caratteristica che si sviluppa attraverso l’interazione con l’ambiente. Nel corso dei primi anni di vita e la prima infanzia si sviluppano particolari convinzioni (schemi cognitivi), la convinzione alla base del perfezionismo è che ci si merita amore solo se si è perfetti. Dunque il perfezionismo nasce già quando siamo piccoli, nell’ambito della nostra famiglia, e si evolve nella necessità di essere perfetto in ogni momento e in ogni campo. Il periodo chiave nello sviluppo del perfezionismo include i primi anni di vita e l’adolescenza, periodi in cui la valutazione sociale assume una maggiore rilevanza e va ad influenzare la costruzione del senso di identità.

In quanto esseri umani, inevitabilmente siamo inclini a commettere errori e il guaio è che a volte più cerchiamo la perfezione, più stiamo combattendo una dura battaglia che non può essere vinta. A quel punto semplici errori diventano catastrofi emotive che demoliscono la tua autostima, allontanandoti sempre di più dalla felicità e dalla soddisfazione personale.

Quando sei troppo perfezionista, non riesci mai veramente a sentirti bene con te stesso perché stai inseguendo l’impossibile.

Le caratteristiche di un perfezionista:

-Standards irrealistici e sforzi per raggiungere questi standards
-Attenzione selettiva agli errori
-Interpretazione degli errori come indicatori di fallimento e credenza che, a causa di essi, verrà persa la stima degli altri
-Autovalutazioni severe e tendenza ad incorrere in un pensiero tutto o nulla, dove i risultati possono essere solo un totale successo o un totale fallimento
-Dubbio sulla capacità di portare a conclusione un compito in modo corretto (autoefficacia)
-Tendenza a credere che gli altri significativi abbiano aspettative elevate
-Timore delle critiche

Alcune caratteristiche del perfezionismo possono essere viste come socialmente desiderabili e appaiono essere adattive per un funzionamento psicologico sano; sforzi elevati sono spesso associati a soddisfazione personale e ad un aumentato senso di autostima. D’altra parte con perfezionismo ci si può anche riferire alla tendenza a stabilire standard elevati impossibili da raggiungere e un forte bisogno di evitare fallimenti. Burns (1993), a questo proposito, ha ritenuto importante differenziare il perfezionismo “malato” dalla “salutare ricerca di eccellere”

Il perfezionismo può essere dunque diviso in: NORMALE: il soggetto stabilisce elevati standard prestazionali ed è poi soddisfatto una volta che li ha raggiunti; DISFUNZIONALE: il soggetto non riesce mai a fare abbastanza per essere soddisfatto della propria performance (Rusignolo I., 2008)

  • Caratteristiche principali del perfezionismo disfunzionale:

-Paura di fallire
-Insoddisfazione costante per i propri risultati
-Convinzione che si deve far colpo sugli altri tramite la propria intelligenza e i risultati e che questo è l’unico modo per guadagnare la loro approvazione
-Quando si sbaglia o si fallisce un obiettivo, si diventa autocritici e ci si sente un fallimento come essere umano
-Si pensa di dover sempre avere il controllo sulle emozioni.

  • Caratteristiche principali della”salutare ricerca di eccellere”

-Creatività ed entusiasmo
-Gli sforzi apportano sentimenti di gioia e di soddisfazione
-Non c’è la credenza che bisogna guadagnare l’amore e l’amicizia facendo colpo sulle persone ma si crede che le persone ci accettino come siamo
-L’errore è visto come una possibilità di apprendimento
-Non si teme che gli altri ci vedano vulnerabili

TRASFORMARE IL PERFEZIONISMO INSANO IN UNO STIMOLO PER MIGLIORARE.

  • Sii consapevole delle caratteristiche del perfezionismo negativo ed impara a riconoscere gli aspetti del perfezionismo malsano:

-Necessità di controllo
-Essere eccessivamente preoccupati di ciò che pensano gli altri
-Necessità di approvazione delle altre persone
-Incapacità di accettare le cose come stanno
-Niente è mai abbastanza buono

  • distingui tra perfezionismo sano e malsano. Non tutti gli aspetti del perfezionismo sono negativi. Ecco alcuni atteggiamenti sani e positivi:

-Raggiungere l’eccellenza
-Desiderio di fare il meglio possibile in tutto quello che fai
-Aspirare a raggiungere obiettivi realistici

  • Sostituire le abitudini malsane con quelle buone.

Stabilire obiettivi irrealistici fa più male che bene. Comincia a sostituire le tendenze al perfezionismo in abitudini più sane:

-Sostituisci le aspirazioni irrealistiche con altre plausibili, raggiungibili
-Accetta il fatto che la perfezione è irraggiungibile
-Accetta il fatto che alcune cose sono semplicemente fuori dal tuo controllo e non c’è niente che tu possa fare
-NON hai bisogno di provare a te stesso qualunque cosa o di spendere tempo prezioso a preoccuparti di cosa pensa la gente di te
-Accetta i tuoi errori. Sei umano!
-Impegnati per l’eccellenza, invece che per la perfezione

  • Fai qualcosa ogni giorno per calmare la mente e alleggerire il tuo bisogno di essere perfetto.

Prenditi del tempo ogni giorno per una pausa e per rilassarti. Vai fuori, fai una passeggiata, medita.

Anche l’attività più semplice può portarti una gioia inaspettata.

Nutri una sana stima di te e accetta le tue qualità positive, abbracciando allo stesso tempo le tue imperfezioni.

SUGGERIMENTI UTILI

Riconoscere i propri difetti ed i propri limiti ed assumere un atteggiamento complessivamente più ironico nei propri confronti.

Ammettere le proprie angosce, le proprie sofferenze, la propria fallibilità, nonché l’impossibilità di prevedere e controllare ogni cosa

Liberarsi dalla logica di pensiero basata sul tutto o niente, credere nella reversibilità delle decisioni e nella possibilità di raggiungere obiettivi realistici a piccoli passi

Evitare di perdersi in dettagli inutili, ma cercare di porsi obiettivi precisi, non eccessivamente ambiziosi da rispettare, seguendo uno specifico pian di lavoro.

Riscoprire se stessi e i propri interessi, metterli al centro delle proprie decisioni, sostituendoli alle aspettative ed ai giudizi altrui.

Cogliere eventuali segni di disagio e di sofferenza che i propri comportamenti perfezionistici possono indurre nelle persone circostanti.

Cercare di vivere nel presente, senza rimuginare eccessivamente sul passato, né speculare mentalmente su possibili catastrofi future, ma affrontarle quando eventualmente si presenteranno concretamente.

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Primo figlio… nuova coppia

A cura della dott.ssa Lucia Di Nardo

rapporto-coppia

La nascita di un figlio rappresenta un grosso cambiamento nella vita di una persona e non solo. Anche se per una coppia è la cosa più naturale del mondo, costituisce un cambiamento di tale portata da richiedere una radicale modifica dei bisogni e delle aspettative, e proprio per questo il passaggio da coppia a famiglia può trovare degli ostacoli e può dividere anziché unire. Ciò che è certo è che la nascita della famiglia è un processo che avviene gradualmente, giorno dopo giorno e che per questo richiede attenzione, dedizione e tempo.

Il periodo di gestazione non termina con il parto, bensì questo rappresenta solo un giro di boa poiché l’altra metà si svolge al di fuori del grembo materno, possiamo infatti parlare un una prima gestazione nel grembo materno (uterogestazione) ed una seconda al di fuori di questo (esterogestazione). Inoltre il parto avvia a cascata nuovi processi di nascita come la nascita di una madre e la nascita della famiglia. Le emozioni che entrano in gioco sono molteplici ed è frequente passare da un umore all’altro molto velocemente o anche provare contemporaneamente emozioni che in apparenza sembrano inconciliabili (come gioia e tristezza).

a seguito di tutto questo possono manifestarsi sensazioni di fatica,  ansia ed umore depresso. Queste sono sensazioni del tutto normali conseguenti all’ondata emotiva che ha travolto i neo genitori. La routine della società porta i padri a dover rientrare presto a lavoro e questo fa si che vengano privati i due genitori della possibilità di esplorare appieno ed insieme la vasta gamma di nuovi sentimenti.

Nuovi equilibri

La nascita del primo figlio costituisce, quindi, la più forte crisi”transizionale” che la coppia attraversi nell’arco della vita. ora molto più che in passato, per una serie di molteplici ragioni, una tra tutte il fatto che l’evoluzione della nostra società ha previsto l’abbandono della struttura di famiglia che vedeva diverse generazioni convivere sotto lo stesso tetto, con tutte le conseguenti difficoltà di gestione del nuovo arrivato all’interno di una famiglia mononucleare. 

Questo cambiamento sociale ha portato con sé sicuramente anche aspetti positivi, vedi il rinnovato impegno paterno nella condivisione con la compagna del lieto evento, e la partecipazione spesso attiva del padre alla quotidianità della vita del bambino. Ciò non elimina il fatto che la nascita del primo figlio rappresenti un momento di cambiamento dirompente della vita della coppia, e sebbene negli ultimi anni si sia posta molta attenzione al post-partum, tale attenzione va comunque potenziata vista la delicatezza del periodo  nel quale si pongono le basi per il benessere futuro del bambino, della madre e dell’intera famiglia. 

divenire genitori inevitabilmente trasforma la relazione di coppia, esponendo i coniugi al rischio di perdersi di vista ed allontanarsi fisicamente ed emotivamente.

Fattori protettivi ed elementi di vulnerabilità

Tra i fattori che giocano un ruolo di influenza nel determinare una sensazione di insoddisfazione all’interno della coppia troviamo:

  • atteggiamenti negativi del compagno nei confronti dell puerpera (come gelosie più o meno manifeste nei confronti del rapporto simbiotico e del legame tra il bambino e la madre)
  • delusione del compagno nei confronti della relazione di coppia (può essere percepita come faticosa, non più ludica od erotica)
  • i partner possono percepire la loro vita relazionale come poco ordinata dopo la nascita del bambino.

ci sono poi fattori che rivestono un ruolo fondamentale di protezione per la coppia e tra questi troviamo:

  • la tenerezza dell’uomo verso la compagna, e non soltanto verso il bambino;
  • un’alta considerazione di lei e del valore della coppia;
  • la considerazione in cui lei tiene il compagno e la relazione di coppia.

Dobbiamo dunque essere consapevoli del cambiamento dell’assetto della coppia e delle sue dinamiche quando si diventa genitori in quanto questo rappresenta un passaggio che seppur naturale, se non affrontato in maniera consapevole può rivelarsi difficoltoso. Per far si che tale cambiamenti avvenga in maniera fisiologica occorre che la coppia riesca a ri-creare un nuovo spazio in cui poter condividere e confidare progetti, voglie, desideri che vanno al di là del ruolo genitoriale. E’ opportuno che l’uomo manifesti la tenerezza e l’entusiasmo nei confronti della propria partner e che questa a sua volta non costruisca un rapporto esclusivo  con il figlio in modo da mantenere riversare una parte delle sue attenzioni anche sul partner.

E’ dunque importante, come nella maggior parte dei casi quando si parla di coppia, utilizzare molto il dialogo aperto tra i partner. Avere un buon livello di comunicazione (che sia comunicazione efficace!) fa si che ci si senta maggiormente compresi dall’altro e che si giunga ad obiettivi condivisi tenendo conto delle esigenze di entrambi, inoltre facilita lo scambio emotivo.

Facendo attenzione ad alcuni spetti e vivendo questo momento con consapevolezza possiamo far si che l’energia del sistema coppia non si distrugga ma venga trasformata in una nuova forma.

 

Superare i sensi di colpa

A cura della Dott.ssa Lucia Di Nardo

senso di colpa

Il termine senso di colpa è un termine poco chiaro con il quale generalmente si va ad indicare un’emozione che può derivare da una molteplicità di situazioni molto differenti tra loro. Ciò sta a significare che vi sono vari substrati che si vanno a costruire dalla nostra infanzia fino alla vita adulta, sui quali poggia il senso di colpa.

Si è scritto molto su questa emozione senza però arrivare ad una definizione univoca. Ciò che è evidente e su cui tutti possiamo concordare è che il senso di colpa è un macigno che pesa sul nostro animo e ci impedisce di vivere  serenamente. Possiamo caricarci di questo peso in maniera consapevole o meno, ed è come se attivassimo un freno, un laccio che ci blocca al passato, a “ciò che è stato”, impedendoci di vivere il presente ed orientarci in maniera serena verso il futuro.

I sensi di colpa investono sia il nostro mondo interno, intaccando la nostra immagine ed il nostro valore personale, sia quello esterno, relazionale. In questo modo possono portarci a snaturarci, ad assumere comportamenti “obbligati”, a perdere di autenticità. Il senso di colpa, quando è negativo, agisce come un dittatore che ci impone di adempiere sempre ciò che è gusto a prescindere dal nostro benessere e a punirci quando non ci comportiamo come “si deve”.

Tutto ciò può portare ad un accumulo di tensione che può tradursi in:

  • un disturbo fisico o psichico se l’energia bloccata viene rivolta contro se stessi;
  • un’esplosione all’esterno, come la rabbia, portando conseguenze negative a livello relazionale.

E’ molto importante dunque imparare a riconoscere la presenza del senso di colpa, le circostanze che ne favoriscono l’insorgenza, e soprattutto indagare le origini. Essendo un’emozione che affonda le proprie radici nei primi anni di vita e che si basa su meccanismi appresi, possiamo disimparare tali meccanismi e sostituirli con nuove modalità più adattive.

FACCIAMO CHIAREZZA

Occorre però distinguere tra:

Senso di colpa come reazione solitamente proporzionate rispetto all’evento, che causa angoscia e frustrazione.

Coscienza di colpa come la consapevolezza dei propri errori. Sappiamo di essere stati la causa e abbiamo una possibilità di riparare.

Generalmente il senso di colpa nasce dalla trasgressione di una regola o di un divieto, e dunque ha un’importanza nel corso della storia dell’evoluzione dell’uomo in quanto essere sociale. Può assumere delle caratteristiche positive in quanto alcuni sensi di colpa possono essere considerati ragionevoli e necessari alla crescita della persona.

Es. se una persona arreca danno a qualcuno è importante che prenda coscienza del proprio errore per trovare il comportamento riparativo più adeguato.

Può infatti essere considerato come un abile strumento di contenimento sociale che rende cioè possibile la convivenza sociale; un questo caso possiamo parlare di senso di colpa sano con il compito di indurci a rispettare le regole esistenti e a non nuocere agli altri ed a punirci quando infrangiamo queste regole facendoci soffrire con i sensi di colpa. Ma il senso di colpa è anche altro…

I SENSI DI COLPA CHE NON CI AIUTANO A VIVERE

Tutti noi entriamo nella vita adulta con regole e valori ben saldi come l’obbedienza, la lealtà, l’altruismo, il sacrificio di sé… Queste regole e valori sono state influenzate dai nostri genitori, dalla società, dalla religione, dai media; generalmente le convinzioni su obblighi e doveri sono ragionevoli, a volte però è possibile sperimentare un disequilibrio tra le responsabilità verso noi stessi e gli obblighi che sentiamo verso gli altri. In questo caso finiamo con il sentirci schiacciati dal peso del senso di colpa.

A volte infatti possiamo leggere in maniera errata le conseguenze delle nostre azioni. Come un allarme di una macchina troppo sensibile che dovrebbe scattare per informarci di un crimine ed invece scatta ogni volta che un camion passa lì vicino, noi possiamo sentirci colpevoli anche quando non abbiamo commesso alcun errore oggettivo.

Es. sentirsi in colpa per non essere andati a trovare un genitore anziano in casa di riposo.

Questo tipo di senso di colpa si presenta in situazioni in cui crediamo di rendere infelici gli altri

Es. mio padre sarà triste se non vado a trovarlo

Il processo che porta ad un senso di colpa immeritato è il seguente:

  • io agisco
  • l’altro ci resta male
  • mi prendo tutta la responsabilità per lo stato d’animo dell’altra persona
  • mi sento colpevole
  • farò qualsiasi cosa per riparare per sentirmi meglio

Una delle paure più gradi dell’uomo è quella di non avere valore agli occhi degli altri, essere considerato in modo negativo, essere rifiutato o escluso. Questo ci fa riflettere su quanto sia importante l’immagino che gli altri hanno di noi e la colpa rappresenta una minaccia poiché in grado di intaccarla.

il senso di colpa è un emozione che ci logora, ci rende sciocchi, ci fa apparire inferiori agli occhi degli altri, consuma la nostra autostima e la sicurezza in noi stessi limitando le idee creative, i sentimenti e le nostre forze, determinando degli eterni perdenti.

Una volta comparsa l’emozione di colpa entriamo in una condizione di mancata percezione positiva di noi rimproverandoci di aver sbagliato in qualcosa o di aver mancato in qualcosa. I problemi possono insorgere in seguito ad una percezione sbagliata delle proprie condotte e degli effetti che hanno sugli altri. In questo modo il senso di colpa diverrà un fardello che andrà a compromettere il nostro benessere psicofisico. Nel senso di colpa patologico vi è infatti il pensiero che le nostre azioni hanno il potere di rendere gli altri felici o infelici. Senso di colpa e onnipotenza sono infatti strettamente legati e tale onnipotenza (“è tutta colpa mia!”) anche se provoca in noi uno stato di sofferenza, ci lascia anche la percezione di un grande potere. Occorre non dimenticare che quando ci colpevolizziamo ci carichiamo di responsabilità che non ci competono e questo ci permette di avere l’impressione di poter controllare ciò che accade… il senso di colpa in un certo senso di rassicura!

IL PESO DI ATLANTIDE

Molte persone sperimentano nella propria vita la spiacevole sensazione di sentire il peso del mondo sulle proprie spalle. Può essere una condizione transitoria o può rappresentare un modus operandi che ci porta a farci carico, in modo sistematico, del benessere, delle scelte e delle decisioni degli altri. Ci sentiamo quindi di avere grandi responsabilità nei nostri confronti e nei confronti degli altri come se da noi dipendesse il destino di molteplici situazioni (Sindrome di Atlantide).

Atlantide si ribella agli dei in quanto ritiene di aver subito un’ingiustizia, la distruzione della propria terra (la città di Atlantide), ingaggia una lotta che poi perderà.

Zeus (archetipo della figura paterna) lo punisce relegandolo nella condizione di supportare il peso del mondo sulle proprie spalle per espiare la propria colpa.

La sindrome di Atlantide si manifesta quando non riusciamo ad opporci a tutte quelle regole e divieti che abbiamo assimilato dai nostri genitori allontanandoci sempre più dai nostri bisogni mettendo invece in primo piano i bisogni dell’altro. Vi è dunque la paura del bambino che temendo di contrastare i propri genitori si punisce caricandosi del peso del mondo sulle sue spalle. Il pensiero disfunzionale è: se non faccio questa cosa allora lui non mi vorrà più bene!!!

In realtà, quello che entra in gioco nel senso di colpa è il legame che si è formato nel corso della nostra infanzia con il caregiver (figure di accudimento).

Se il bambino non ha fatto esperienza di una base sicura per lo sviluppo emotivo e psicologico, il legame con il caregiver sarà basato sull’incertezza e l’incoerenza che porteranno il bambino a sperimentare la paura della perdita dell’altro. tutto ciò spingerà a mettere in atto strategie per conservare i legame con il caregiver alimentando così i circuiti di attivazione del senso di colpa.

COSA FARE

In primo luogo, per non farci bloccare dai sensi di colpa è opportuno avere una percezione positiva di sé, migliorare la propria autostima sentendoci così meno minacciati dal giudizio degli altri. Inoltre è necessario rinunciare al sentimento di onnipotenza che, anche se ci fa percepire un grande potere genera sempre eccessiva sofferenza, cercando di ridistribuire in maniera appropriata le responsabilità.

Se la sofferenza generata dai sensi di colpa è molta, un ulteriore passo da compiere consiste nel riconoscere la presenza del senso di colpa, le circostanze che ne favoriscono l’insorgenza, e soprattutto indagare le origini e se ci sono eventuali paure immotivate e/o ritenute eccessive di perdita dell’ altro.

In tutti i casi, qualora i sensi di colpa inficino molto la qualità della vita è opportuno rivolgersi ad uno specialista che possa aiutarci nell’analizzare sentimenti ed emozioni importanti che sono alla base della nostra sofferenza imparando a rispettarci un po’ di più.